Si conclude a Barcellona il Simposio sui giovani...
Questa mattina si è concluso a Barcellona il Simposio sull’accompagnamento dei giovani organizzato dal Consiglio...
0Cari Confratelli
Cari Giovani
Siamo giunti a conclusione di questi giorni intensi, fatti di preghiera, riflessione, ascolto, dialogo su tematiche che toccano la vita dei giovani, ma – se permettete – anche degli adulti e di noi Pastori. Infatti, ed è questa la mia prima considerazione, la realtà dei giovani chiama in causa gli adulti che hanno, verso le nuove generazioni, delle responsabilità gravi. Non dimentichiamo, infatti, che la prima domanda che ogni educatore – genitori, sacerdoti, maestri…- deve farsi davanti ai giovani, non è “che cosa posso fare per loro?”, bensì “chi sono io?”: così si esprimeva il teologo italo tedesco Romano Guardini, docente universitario e grande grande formatore della gioventù. Se, infatti, educare significa che io do a quest’ uomo coraggio verso se stesso, che lo aiuto a conquistare la sua libertà, che lo introduco nella vita perché sia vivo e non un fantasma, allora comprendiamo che la formazione non è questione principalmente di discorsi, esortazioni, richiami, stimoli, metodi: tutto ciò è necessario ma non è ancora il fattore originale. La vita, infatti, viene destata solo con la vita, la luce con la luce, la libertà con la libertà, l’amore con l’amore! Allora, la prima domanda ricade su di me che ho un compito formativo, e pertanto devo chiedermi se sono un uomo vivo, libero, se la mia persona, più che essere efficiente, irradia, è luminosa, e quindi benefica per chi si avvicina.
Se è vero che ogni età chiede lo scalpello o il cesello educativo, è anche vero che le generazioni più adulte hanno maggiori responsabilità verso i più giovani: nessuno è mai “arrivato”, ma gli adulti devono avere qualcosa da dire di vero e di bello, di serio e di buono, a chi si trova all’inizio della parabola: qualcosa da dire con le parole e da testimoniare con i fatti. Se questo non fosse, avrebbe – l’adulto – perso anni che non torneranno.
Non pretendo ora di tirare delle conclusioni vere e proprie, ma presento alcune considerazioni che spero utili per incorniciare – se possibile – l’affresco di questi ricchi giorni che abbiamo vissuto con la vicinanza paterna del Santo Padre Francesco che – tramite il Segretario di Stato S. Em. il Card. Pietro Parolin – ha espresso con un Messaggio incoraggiandoci a “condurre una riflessione sulle sfide dell’evangelizzazione e sull’accompagnamento dei giovani affinché (…) siano portatori convinti e della gioia del vangelo in tutti gli ambiti”.
Torno sulla straordinaria avventura educativa che chiamiamo “accompagnamento”. Ho già accennato che il primo soggetto chiamato in causa è l’educatore. Vorrei però precisare la natura del processo educativo. Sopra ho accennato al percorso educativo come cammino di libertà, di amore, di luce: sono immagini evocative, ma vorrei ora dire in forma più globale che educare significa aprire alla vita, incontrarla e dialogare con lei.
Che cosa significa?
Ogni giorno la vita ci viene incontro attraverso le cose che prevediamo nel programma di lavoro o di studio, e attraverso le molte cose che non possiamo prevedere, e che riguardano la nostra vita esteriore o il nostro mondo interiore, come sentimenti, impulsi, sensazioni, pensieri, cambiamenti…cose piacevoli o dolorose, successi o sconfitte, gioie e paure. Dobbiamo incontrare la vita ogni giorno, guardarla in faccia come si presenta, senza fughe, illusioni o pretese: accoglierla così com’è. Accoglierla significa corrisponderle, portare qualcosa di mio, anzi portare me stesso con il mio essere unico, per far diventare le giornate e gli eventi non un peso che mi capita addosso e che devo subire passivamente, ma qualcosa di personale che faccio mio, che abbraccio e che mi appartiene: la mia storia. E’ questa la maturità umana che anche la fede cristiana ci chiede. Ed è questa serietà che porta la gioia o, comunque, serenità e pace. In sintesi, educarsi e educare è trasformare la vita che ci è data con la sovrana libertà di Dio Creatore, in un capolavoro della nostra libertà. Spesso il Papa ha ricordato che la vita è un dono donato e da donare sempre. Per dialogare con la vita, però, è quanto mai utile dialogare con qualcuno che ci accompagna e, come Gesù, ci ascolta, ha pazienza, sa attendere, ci dà fiducia, ci benefica con la sua luminosità spirituale, ci parla con le parole di Dio, ci offre i sacramenti della salvezza, non ci lega a sé.
E’ Cristo il Maestro dei maestri così come è il Pastore dei pastori: a Lui tutti dobbiamo guardare e soprattutto rivolgerci con insistente e costante preghiera. perché egli operi nelle anime ciò che Lui vuole, non le nostre piccole idee. Egli, all’inizio della sua missione, sceglie dodici uomini e li forma per farne degli Apostoli. Erano uomini adulti, avvezzi ad una vita di sacrificio e di responsabilità. La vita li interpellava ogni giorno ed essi rispondevano alle sue chiamate: il lavoro, la famiglia, gli amici, la fede ebraica, la società di appartenenza, il villaggio… Ogni giorno incontravano provocazioni che mettevano a prova e insieme arricchivano la loro umanità di uomini e di credenti. Gesù si inserisce nella loro vita, e quella vita l’avrebbe cambiata alla radice, ne avrebbe fatto dei testimoni: da quel momento, i Dodici sarebbero stati segnati da accoglienza e insuccessi, gloria e tradimenti, lusinghe e persecuzioni. Il Maestro voleva formarli, educarli a vivere della loro vocazione, cioè dentro a quel rapporto personale che la chiamata di Gesù – “seguimi” – aveva creato per sempre, e che avrebbe definito, prima ancora che il loro agire, il loro stesso essere. Voleva formarli perché incontrassero la loro nuova vita e lì inserissero la loro umanità, lì giocassero tutto il loro cuore.
Ma come? Basta scorrere i Vangeli e vediamo che la scuola di Gesù è fatta di parole e di silenzi, di gesti quotidiani e di miracoli, di rimproveri e di tenerezza, di esigenza e di pazienza, di fatica ed i festa, di preghiera e di dialogo, di compagnia e di solitudine, di prossimità e di distanza. Ma sempre e comunque d’amore e di fiducia verso questi poveri uomini, semplici quasi tutti incolti, che si sono trovati all’improvviso in un’avventura più grande di loro. Le parabole e i grandi discorsi sulla montagna o in riva al mare, i miracoli, la gloria di Gerusalemme e l’abiezione dolorosa del calvario, l’intimità misteriosa del cenacolo, l’alba della risurrezione e il distacco fisico dell’ascensione al cielo, la Pentecoste…tutto era grazia di salvezza per il mondo e, per loro, anche cattedra che li educava ad un nuovo futuro. Nessuna pagina, nessuna parola, nessun gesto del Signore può essere taciuto: il Vangelo è da avvicinare “sine glossa” come raccomandava San Francesco e avendo nel cuore le lucide parole del beato Paolo VI: “Molti, anziché convertire il mondo a Cristo, hanno convertito se stessi al mondo”. Gesù è dunque il Maestro perfetto, ma anche il modello pieno e affascinante da guardare per educare e per educarci: è l’unità di misura dell’umanesimo come ha ricordato il Santo Padre al Convegno ecclesiale della Chiesa Italiana a Firenze nel 2015. In Lui, vero Dio, scopriamo anche il volto dell’uomo completo, tanto che Pilato fu, senza saperlo, profeta quando lo presentò al popolo e disse: “ecce homo!”. Ma questo sarebbe ancora troppo poco, o forse troppo arduo e disperante, se nello stesso tempo non trovassimo in Lui la sorgente della forza e della grazia senza la quale non possiamo far nulla. In Gesù risplendono tutte le virtù umane in forma eminente, risplende la piena umanità dell’uomo, quell’umanità che la nostra epoca rischia di non più riconoscere riducendo la persona ad una forma liquida, ad un’impronta sulla sabbia come dice M. Foucauld, annunciando così la morte dell’uomo.
La cultura contemporanea sembra non aver nulla da dire ai giovani, nulla di significativo che scaldi il cuore e riempia la vita. Ciò nonostante, contiene una opportunità che non dobbiamo perdere: quella di pensare e scegliere. In una cultura fluida ognuno è chiamato a riflettere: può rinunciare a farlo, adeguandosi al pensiero unico, oppure può ascoltare le voci profonde dell’anima, e allora giunge alla spiaggia della verità e del bene, giunge facilmente a Dio: oggi – possiamo dire – si crede poco perché si pensa poco, e Sant’Agostino dice che “la fede se non è pensata è nulla”!
Il potere, quando si pensa non come servizio ma come dominio degli altri, vede il pensare come un pericolo, un attentato. E allora, come la storia del secolo scorso insegna, mette in atto ogni forma possibile di distrazione: il mito del successo e dell’apparenza, il consumismo che consuma l’anima, la felicità come soddisfazione immediata ed effimera, l’autonomi assoluta che svuota il mondo interiore e impedisce di costruire sulla solida roccia. La cultura del nulla di valori e di ideali, è incapace di offrire ragioni per vivere, non vede il senso della vita e del mondo. Il collettivismo materialista e l’individualismo consumistico sono due forme di totalitarismo: entrambi – per vie diverse – annullano la persona e ne fanno un’isola. Illudono in modi diversi, ma il risultato è identico: una angosciante solitudine. Quando la società, anziché essere una comunità di vita e di destino, è una moltitudine di individui separati tra loro, preoccupati solo di se stessi, allora il potere di turno manipola meglio e gli affari di pochi prosperano. Senza contare che il vuoto spirituale chiede di essere riempito, e facilmente subisce la perfida suggestione di ideologie che si presentano forti e mortali. Dicevo che un’opportunità del tempo presente è la provocazione a pensare e a scegliere: scegliere chi essere e come vivere, chi sono gli altri e quali rapporti stabilire, chi è la società e il senso del tempo, da dove veniamo e verso dove stiamo andando insieme all’umanità, quale ruolo avere oltre che nella vita privata anche nella storia, se solo credere in Dio oppure anche vivere con Dio. L’incontro con Gesù redime dal peccato, dona la vita di Dio, trasfigura, immette nel cuore una passione d’amore per Dio tale da attraversare le sofferenze abissali e le miserie “imperdonabili” dell’uomo.
Il cuore dei giovani – nonostante rappresentazioni oscure e dolorosi fatti di cronaca – sembra palpitare in modo diverso: parla la diffusa inquietudine che – al di là di problemi contingenti come la difficoltà di trovare lavoro, la difficoltà di farsi una famiglia pur desiderata non poco – svela la nostalgia verso una pienezza che sfugge agli esami più sofisticati: sfugge perché il sofisma complica ciò che è semplice. Si tratta, infatti, di un’inquietudine non contingente ma radicale, che accompagna il cuore in qualunque situazione come una ferità salata, come una freccia puntata verso un obiettivo che sente essere il suo, ma che può solo attendere e invocare come dono dall’Alto. Il giovane desidera interpretare questa permanente ferita che lo fa sentire incompiuto, perenne inquilino di una linea di confine fra due sponde, il finito e l’infinito, il tempo e l’eterno. Ha bisogno di sentirsi accompagnato sulla terra sconosciuta dei significati e del senso della realtà di cui lui è la punta infuocata (T. de Chardin). Aspetta che qualcuno si accorga delle sue insicurezze che, prima di essere psicologiche, sono strutturali o ontologiche, cioè appartengono alla condizione di ogni persona. Intuisce che ciò deve avere un significato, deve contenere un messaggio, ma l’avverte come un labirinto sconosciuto, e cerca qualcuno che gli dica una parola. Su questo incrocio i giovani devono incontrare delle persone significative, dei padri.
Anche un altro equivoco oggi diffuso può ghermire l’età giovanile, quello di credere che il numero delle esperienze è la misura della qualità della vita e della maturità della persona. Da questa bugia nasce l’insoddisfazione in chi non può permettersi tutto questo, e facilmente sgorga il sentimento dell’invidia e del sordo risentimento, che fa dimenticare ciò che si ha, pensando continuamente a ciò che manca. Bisogna però ricordare che non è la quantità della cronaca che costruisce l’uomo, ma la elaborazione di ciò che si è visto, delle esperienze che si vivono. Non è dunque l’estensione che costituisce il senso della vita, ma l’intensità, la forza del vissuto: la vita non è un esperimento. Concepirla così significa non prenderla sul serio, non stimarla, e come diceva secco Leonardo da Vinci: “Chi non stima la vita non la merita” (Scritti letterari).
Un altro aspetto che il giovane, e non solo, spera di decifrare è la diffusa fragilità che insidia tutti, ma innanzitutto i più giovani. Fragilità che si manifesta nella insofferenza davanti alle inevitabili difficoltà, insuccessi, delusioni anche affettive, incomprensioni che la vita comporta. Un elemento decisivo della formazione è, avvicinandosi l’età adulta, la formazione del carattere, il saper stare in piedi da solo. Il carattere non è un “carattere impossibile”, ma è la stabilità interiore della persona: non è rigidità e neppure sclerosi dei punti di vista e degli atteggiamenti, ma è la connessione del pensiero, del sentimento e della volontà con il proprio centro spirituale. Quando non è ancora chiaro e deciso il proprio centro spirituale, la persona ha la sensazione dello smarrimento, cioè della mancanza di sintesi che dà significato e direzione. Viene alla mente quanto scriveva Dietrich Bonhoeffer: “Noi cristiani dobbiamo tornare all’aria aperta, dobbiamo tornare all’aria aperta del confronto spirituale con il mondo” (Resistenza e Resa)
Il punto è scoprire il proprio centro interiore, è costruirlo pazientemente: attorno al centro spirituale la molteplicità fatta di pensieri, sentimenti, scelte, azioni…trova la propria unità e la necessaria, dinamica armonia. Per il cristiano, il centro non è un’idea, una sapienza umana, ma è Gesù sapendo che il cristianesimo non è l’evasione degli uomini nel mondo di Dio, ma l’invasione di Dio nel mondo degli uomini: e che soltanto se saremo toccati da Dio, Dio può far ritorno presso gli uomini in ogni ambiente di vita. Al riguardo, è utile ricordare quanto Madeleine Delbrel, giovane convertita francese del secolo scorso, scriveva nel suo diario: confidava il timore che – nel tempo – il Vangelo venisse “naturalizzato”, cioè gli si togliesse la linfa soprannaturale per ridurlo ad una sapienza umana, un messaggio di buon senso comune, svuotando così la croce di Cristo.
Cari amici, la nostra Europa è un continente straordinario: crogiolo di genti e di Nazioni, di storia e di cultura: è la sintesi di Atene, Gerusalemme e Roma. Il Vangelo è l’alveo fecondo che ha raccolto e portato a sintesi alta ogni altro contributo, e ha generato quell’umanesimo plenario che trova in Gesù la sorgente e il paradigma: “Non esiste umanesimo autentico – scrive il Santo Padre – che non contempli l’amore come vincolo tra gli esseri umani, sia esso di natura interpersonale, intima, sociale, politica o intellettuale”. Ci fa bene ricordare anche quanto il maggiore pensatore ceco del XX secolo ha affermato: “Senza cura dell’anima come base spirituale l’Europa è morta e cade nuovamente nell’oblio” (Platone e l’Europa). Tocca a tutti noi – come comunità cristiana – prendere per mano questa grande Terra e farne una “casa di popoli”, dove il fondamento unitario non è da inventare da zero, ma esiste da millenni. Tocca a noi – di diverse generazioni – crescere, per fare crescere la cultura e la civiltà umanistica che è un dono per tutti, ricordando le parole di T.S. Eliot:” Se il cristianesimo se ne va, se ne va tutta la nostra cultura. E allora voi dovrete ricominciare faticosamente da capo e non potrete indossare una cultura già fatta. Dovrete attraversare molti secoli di barbarie” (Appunti per una definizione della cultura. Appendice: L’unità della cultura europea, in Opere 1939-1962).
Alle giovani generazioni guardiamo con grande simpatia e fiducia; a loro toccherà essere i nuovi evangelizzatori, convinti che evangelizzare significa annunciare Gesù e le implicazioni concrete del suo mistero che genera una vita buona.
Il nostro è un tempo meravigliosamente arduo, è l’ora che la Provvidenza ci ha dato, l’abbracciamo con fiducia e amore, ricordando quanto scriveva Sant’Agostino: “Vivete bene il tempo e lo cambierete; e se lo cambierete non avrete più da lamentarvi” (Discorsi 311, 8,8). Sì, lo vogliamo vivere bene cominciando a cambiare noi stessi, e aiutandoci gli uni gli altri. Grazie.