Cardinale Vincent Nichols, Vice-Presidente del CCEE
Homily The first reading in our Mass this evening is one of the most beautiful...
0E’ per me un grande onore aprire con il mio intervento la prima parte del Simposio organizzato CCEE, intitolata „Accompagnare i giovani a rispondere liberamente alla chiamata di Cristo”. Voglio evidenziare il fatto che questo è il primo Simposio di tale tipo, dato che fino ad ora gli incontri e i congressi sono stati organizzati da diversi Commissioni e settori del CCEE. Invece questa volta vengono portati insieme rappresentanti di cinque settori pastorali diversi: Catechesi, Scuola, Università, Giovani e Vocazioni. Esprimo la mia gioia e soddisfazione per il fatto che la preparazione al Simposio è stata oggetto di un lavoro intenso di tutti questi settori pastorali. A tutte le persone il cui lavoro durante quasi due anni ha portato frutti così significativi, desidero ora dire il mio “grazie!” di tutto cuore.
L’idea del Simposio è nato nell’aprile 2015, a Łódź, dove allora ero arcivescovo, in occasione del Simposio „Essere e diventare responsabile nella vita”. In quell’occasione era in corso la riunione dei presidenti e segretari delle tre le sezioni della Commissione Catechesi, Scuola, Università, durante la quale si era fatta strada l’idea di guardare alla questione della trasmissione della fede cristiana nel suo insieme, alla luce di un processo di interiore integrazione di ogni persona umana, prendendo in considerazione l’intero procedimento dell’accompagnamento del giovane, della catechesi parrocchiale, della scuola cattolica e della pastorale universitaria, sapendo la necessità di coinvolgere anche gli ambiti della pastorale giovanile e quella vocazionale. Questa idea iniziale aveva trovato un indiretto, anche se evidente, appoggio durante i dibattiti dello stesso Simposio di Łódź. Un esempio di questo è il seguente frammento della conferenza della prof. Kaja Kaźmierska, docente di Sociologia presso l’Università statale a Łódź in Polonia: „La percezione della propria identità gioca un ruolo chiave, perciò uno sguardo riflessivo al passato diventa parte del processo di costruzione d’identità nella prospettiva del presente e del futuro. Il bisogno del senso di continuità iscritto nella nostra cultura, che si esprime sia nella ricerca di integrare le esperienze personali, sia nella continuità generazionale (in ciascuna di queste dimensioni la mancanza della memoria è considerata una patologia), fa nascere dal punto di vista psicologico e culturalmente condizionato, delle aspettative riguardo all’immagine della propria biografia. Si tratta della capacità di stabilire un legame tra passato, presente e futuro. Cresciuti nella cultura del tempo storico e lineare abbiamo un senso del suo scorrere e della sua irreversibilità. Allo stesso tempo, tuttavia, il ritorno al passato, cioè a dei ricordi, a quel modo codificato nella memoria, conferisce alla biografia una discontinuità. Attingiamo qui ad un ricco universo simbolico relativo alla sfera del sacro. Uno degli attributi di essa è proprio la reversibilità. Nelle interpretazioni biografiche è molto importante il collegare questi due ordini contraddittori per potere ritornare a qualcosa, mentre si ripercorre la strada della vita. Se all’uomo si toglie questa possibilità, il problema di cercare una coerenza biografica diventa non solo un dovere, ma si è addirittura costretti ad affrontare un difficile, perché disturbato, processo della sua costruzione. Un ruolo considerevole gioca qui il processo di costruzione dell’identità integrata”[1].
Il titolo del mio intervento è: „Gesù sulla via di Emmaus – l’accompagnamento nell’Europa d’oggi”. In esso dunque ci sono tre elementi, che di conseguenza, costituiranno le tre parti della mia relazione. La prima parte, di carattere biblico/pastorale, è determinata dalle parole: „Gesù sulla via di Emmaus”. La seconda parte, costituita da una riflessione socio-culturale, è indicata dalle parole: „Europa d’oggi”. Invece il contenuto della terza si trova nella sola parola „l’accompagnamento”. In questa è contenuto una specie di programma d’azione di coloro che in forza della loro vocazione e del loro posto nella Chiesa, sono responsabili della trasmissione ai giovani del tesoro della fede e dell’accompagnamento di essi nel processo della loro crescita nelle virtù teologali di fede, speranza e carità.
Fermiamoci allora anzitutto sul cap. 24 di s. Luca, a questo frammento a tutti noi ben noto del Vangelo. Nei suoi versetti 13-35 l’Evangelista ci parla dell’incontro con Gesù dei due discepoli che si recavano ad Emmaus, del loro incontro con Cristo, che di sé aveva detto di essere la Verità (cfr. Gv 14, 6). Che carattere ebbe questo incontro? Come in qualche modo penetrò nella mente e nei cuori dei due viaggiatori la verità sulla Verità?
Essi andavano ad Emmaus pieni dei dubbi [esistenti] tra i discepoli. Erano pervasi di tristezza, di profonda delusione e di senso di sconfitta esisteniale, manifestati nella loro affermazione: “E noi speravamo che Egli…” (Lc 24, 21a). In verità i discepoli avevano già sentito che Cristo era risorto, ma si trattava di una notizia che, ricevuta da donne, semplicemente li aveva sgomentati (Lc 24, 22). Per questo provavano certi stati emozionali definiti con precisione: tristezza, sgomento, delusione, senso di speranza perduta. Queste emozioni erano talmente forti che neppure certi fatti reali erano in grado di dominarli. Questi fatti erano: le relazioni delle donne sull’incontro con gli angeli; la tomba vuota, in cui il corpo di Cristo non c’era più; la conferma di Pietro e di alcuni altri discepoli della relazione delle donne sul sepolcro vuoto di Cristo (cfr. Lc 24, 12. 23-24). In qualche misura si poteva ancora capire lo scetticismo dei discepoli, che ritenevano „vane chiacchiere”, le parole delle donne, alle quali in nome del più elementare buonsenso non era possibile credere (cfr. Lc 24, 11). Ma pure Pietro ed alcuni discepoli – quindi uomini! – avevano visto la tomba vuota di Cristo! Eppure Pietro si era limitato a stupirsi di fronte a quello che ”era accaduto” (Lc 24, 12), mentre i due che si recavano ad Emmaus si erano lasciati vincere dalla tristezza e dal senso di una sconfitta esistenziale. Perché le cose erano andate così? Pare che la chiave per la comprensione di questa situazione si trovi nell’affermazione che Pietro e gli altri discepoli che si erano recati al sepolcro di Cristo, „Lui non Lo avevano visto” (Lc 24, 24). Ne deriva che, per i discepoli di cui parla s. Luca, il criterio più importante per il riconoscimento della verità di un fatto consisteva in un puro sensibile vedere. Dato che i discepoli non avevano veduto Cristo, semplicemente non avevano preso per verità la notizia della sua risurrezione. Dal punto di vista della teoria filosofica della conoscenza, l’atteggiamento dei discepoli può essere preso come espressione di un’ulteriore versione della cosiddetta definizione non classica della verità che prenderebbe la forma della seguente affermazione: “Una cosa è vera se è vista personalmente con i sensi”, più precisamente: con gli occhi.
Invece Cristo Risorto rifiuta una simile concezione della verità, anzi desidera essere per essa una sfida come anche un superamento. Volutamente quindi si avvicina ai discepoli come Uno che non è da loro riconosciuto con lo sguardo. Infatti s. Luca scrive: „Ma i loro occhi erano impediti di riconoscerLo” (Lc 24, 16). Cristo, come terzo Viaggiatore non riconosciuto, avvia con loro un dialogo, richiamandosi all’autorità dei Libri sacri: „E, cominciando da Mosè attraverso tutti i profeti, spiegò loro quanto Lo riguardava in tutte le Scritture” (Lc 24, 27). Sotto l’influsso delle sue argomentazioni, i cuori dei discepoli cominciarono a cambiarsi; come poi affermarono, “ il cuore (…) ardeva in noi” (cfr. Lc 24, 32b). Il completo cambiamento spirituale avvenne in loro durante l’Eucaristia serale, nel momento in cui Cristo “prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24, 30). Allora si giunse alla vera folgorazione: „si aprirono loro gli occhi e Lo riconobbero” (Lc 24, 31). Questa dovette essere una conoscenza molto più profonda di quella che dà una visione puramente sensibile, perché, nonostante il fatto che subito dopo Cristo „sparì dalla loro vista” (e quindi sensibilmente non Lo videro più), pieni di gioia fecero ritorno a Gerusalemme, a raccontare del loro incontro con il Signore Risorto (cfr. Lc 24, 31b. 33-35).
La storia dei discepoli diretti ad Emmaus continua a rimanere attuale in riferimento ai giovani che vivono nell’Europa di oggi. Molti di loro sono nati in famiglie cristiane e in maniera in qualche modo naturale crescono nella fede della Chiesa cattolica. Molti altri per motivi diversi hanno perduto la fede, talora a causa della perdita della fiducia nella Chiesa. Per questo essi spesso vivono con un senso di interiore amarezza, a cui tengono dietro: tristezza, mancanza del senso della vita e una paralizzante carenza di speranza. Molti altri, ancora, sanno che esiste la religione cristiana, anzi: molti di loro hanno sentito [parlare] di Cristo crocifisso e risorto come del messaggio principale col quale la Chiesa si rivolge al mondo, ma rimangono ad una grande distanza da Lui. A tutti loro, anche se ogni volta in modo diverso, la Chiesa si avvicina e attraverso i suoi testimoni comincia ad edificare in loro la speranza in una nuova, autentica vita. Mostra loro la verità contenuta nel Vangelo, cioè nella Buona Novella su Gesù Cristo, Salvatore del mondo e Redentore dell’uomo. Nell’Eucaristia mostra loro, successivamente, tutta la verità su Cristo crocifisso e risorto, di continuo rinnovata e vissuta. Sotto l’influenza della testimonianza delle persone, da una parte, e come frutto della grazia divina, dall’altra, si arriva ad una radicale trasformazione dei cuori dei giovani. Andando al di là delle esperienze puramente sensibili, essi sperimentano personalmente la presenza di Cristo e da quel momento, ormai come persone che credono in Lui, sotto l’influsso dello Spirito Santo, pieni di gioia Lo annunciano al mondo intero. Ancora una volta, nella lunga storia della Chiesa, si ripete nella loro vita l’evento dei discepoli che si recavano ad Emmaus.
E’ certamente un luogo comune che l’Europa contemporanea si trovi in uno stato di crisi profonda. Affermandolo, non penso in primo luogo alla crisi che logora l’Unione Europea intesa come un certo progetto politico, che è sorto in Europa dopo la fine della seconda guerra mondiale. La crisi politica di cui abbiamo appena parlato è infatti la conseguenza della crisi assai più profonda che tocca i fondamenti stessi della cultura europea, chiamata talora anche cultura mediterranea o occidentale. Come tutti sanno, l’identità di questa cultura consiste in una sintesi di filosofia greca, simboleggiata da Atene, di religione cristiana, simboleggiata da Gerusalemme e di diritto che obbliga tutti i cittadini, simboleggiata da Roma. Attualmente in alcuni ambienti si dice in modo abbastanza generalizzato, che l’Europa contemporanea è ormai post cristiana e le verità annunciate dalla religione cristiana riguardo a Dio e all’uomo, in nome di un progresso onnipotente, vanno ormai, in fin dei conti, messe da parte. E’ anche cosa assai sintomatica che, come parola dell’anno 2016, all’università di Oxford sia stato proclamato il termine „post-verità”. Contrariamente ad alcuni commenti si deve inoltre affermare con tutta la forza che la post-verità non può essere identificata con la bugia. Infatti la bugia è una consapevole falsificazione di qualche verità, mentre la post-verità indica che nell’ambito sociale non c’è ormai più posto per una verità oggettiva di qualsiasi genere. Parlando di essa anche i fatti sottoponibili ad una verificabilità generale sono presi alla leggera e sostituiti dalle cosiddette narrazioni, costruite su emozioni e pregiudizi, potenziati con abilità dai media che li sostengono. Mettendo in forse l’esistenza della verità oggettiva, si rigetta il secondo elemento fondamentale della cultura europea, simboleggiato da Atene. In questo momento delle nostre riflessioni possiamo, o anzi dovremmo, formulare la seguente domanda: cos’è ormai l’Europa, se la si priva dei suoi riferimenti a Gerusalemme e ad Atene? Rimane invero ancora il suo riferimento a Roma, cioè al diritto. Tuttavia la legge che non sia ancorata ad una verità obiettiva sui valori morali, conduce ad un uso di essa simile a quello di cui ha dato esempio, quasi duemila anni fa, un certo procuratore romano di nome Pilato. In questa situazione in molte democrazie contemporanee si arriva alla creazione di leggi che attaccano i diritti più elementari del diritto umano, compreso quello alla vita, quale ha luogo nel caso dell’eutanasia o dell’aborto inteso come „diritto della donna verso se stessa” presentato come uno dei principali cosiddetti “valori europei”.
Fra i molti segni della crisi che tocca l’Europa di oggi, metterei al primo posto la crisi della comprensione della persona umana e della comunità tra le persone. Il personalismo del secolo ventesimo e la filosofia del dialogo ad esso molto vicina avevano presentato la dimensione di relazione, anzi dialogica della persona umana. Il cosiddetto principio dialogico, formulato da Martin Buber ed accolto da molti rappresentanti della filosofia del dialogo evidenziava il fatto che da una parte il “tu” non può essere oggetto e dall’altra parte che ”l’io” non può diventare se stesso che nell’incontro con il “tu” (umano e divino). Inoltre la teologia cristiana presentava la Santa Trinità come fondamento ultimo dell’incontro umano e della comunità delle persone. Oggi invece proprio questa comunitarietà creatrice della persona è stata profondamente messa in discussione. Grazie agli onnipresenti mezzi della telecomunicazione il luogo dell’incontro di una persona con l’altra, formato dalla vicinanza faccia a faccia è stato sostituito da “incontri” di carattere virtuale.
Inoltre, nella cultura contemporanea si proclamano idee che sono una specie di deificazione dell’ ”io”. Di conseguenza, questo si collega con l’apoteosi della cosiddetta autorealizzazione, una continua rivalità tra le persone sulla base di una gara di ratti, e in ultima analisi in un’atomizzazione della società. Il “tu” cessa di essere il partner dell’incontro di pari diritti. Si arriva allora ad un inevitabile allentamento dei legami sociali. Questo riguarda anche quelli maggiormente fondamentali per le strutture di ogni società, quali il matrimonio e la famiglia. Lo favorisce anche l’ ideologia gender generalmente imposta ed ampiamente realizzata in vari progetti educativi, ideologia che mette in discussione il fondamento biologico dell’identità della donna e dell’uomo e di tutti i ruoli derivanti dalla diversità del sesso e con essa collegati. Ultimamente siamo stati testimoni della messa in discussione di quello che per tradizione era strettamente collegato con la concezione di persona, e cioè della sua dignità trascendente. A giugno del 2016 gli eurocrati di Bruxelles hanno presentato un progetto di norme nuove dell’Unione Europea riguardante l’automatizzazione dei processi industriali. In questo progetto, presentato al Parlamento Europeo, il robot viene riconosciuto non come una macchina ma come una “persona elettronica” a cui sono dovuti i relativi diritti e doveri. Per l’occasione ci fu il suggerimento che i modelli maggiormente autonomi di robot venissero registrati, affinché sia chiaro chi inseguire se commettessero qualche reato. Invece le ditte che hanno messo i robot nei posti di lavoro, al presente occupati da persone, dovrebbero continuare a pagare i contributi per l’assicurazione sociale. Quanto allora, alcuni mesi fa, sembrava pura science fiction, il 31 gennaio 2017 è divenuto realtà. Quel giorno infatti un bambino-robot è stato registrato all’anagrafe e ha ricevuto la cittadinanza. Nada Vananroye, sindaco della località di Haaselt, in Belgio, ha firmato il suo atto di nascita e gli ha dato il nome femminile di Fran e il cognome Pepper. Fran ha perfino i suoi genitori registrati nell’ufficio; essi sono gli scienziati Astrid Hannes e Francis Fox, che lavorano all’università PXL. In questo modo in un contesto del tutto diverso è ritornata l’idea contenuta nel libro di Julien Ofray de La Mettrie del 1748, intitolato L’homme machine – „L’uomo macchina”. Con questa differenza che La Mettrie cercava di dimostrare che l’uomo è una macchina, mentre adesso da parte del diritto si ritiene persona una macchina.
Torniamo ancora per un attimo al momento decisivo della storia dei due discepoli che si recavano ad Emmaus. S. Luca scrive: „ i loro occhi si aprirono e Lo riconobbero” (Lc 24, 31). I discepoli dunque sconfissero le difficoltà spirituali che fino allora facevano loro da ostacolo e riconobbero Cristo, e questo ebbe come frutto un loro stile di vita del tutto nuovo.
Questo evento del Vangelo definisce il fine principale di colui che accompagna il giovane nella strada della sua vita; egli deve accompagnarlo alla conoscenza di Cristo e di conseguenza ad un radicale cambiamento della sua vita di prima. Questo accompagnamento avviene attraverso un processo di superamento delle difficoltà per colpa delle quali „gli occhi dei giovani sono [continuano ancora ad essere] in qualche modo impediti” di riconoscerLo (Lc 24, 16). Sembra che tra le difficoltà maggiori ci siano quelle che hanno carattere antropologico, riguardanti la comprensione dell’essenza stessa dell’uomo. In evidente e pienamente consapevole contrasto con il modo puramente biologico di considerare l’uomo, molto spesso presentato come rappresentante di un certo genere appartenente solo ed esclusivamente al mondo animale, si devono far scoprire ai giovani i veri strati della spiritualità presente nell’uomo, che superano il mondo dell’esperienza puramente sensibile. L’accompagnamento dei giovani nel loro cammino verso Cristo deve allora consistere nel presentare loro, prima, con pazienza e saggezza la verità sull’uomo come creatura fatta di corpo e di spirito.
Cercando poi di mostrare al giovane i dinamismi, i sentimenti, le emozioni e i desideri presenti in lui, si deve fargli capire la necessità della loro integrazione. Essa consiste nella capacità (e indispensabilità) dell’autopossesso e dell’autodominio, come profondamente ha fatto vedere il card. Karol Wojtyła nel libro Persona e atto, pubblicato nel 1969. Di conseguenza si deve presentare ai giovani la verità che l’uomo, a differenza degli animali, è un essere morale, la cui libertà è una libertà responsabile, definita dalle esigenze del Decalogo come anche dei due comandamenti dell’amore di Dio e del prossimo. Accompagnando il giovane nel suo cammino verso la maturità personale e individuale, bisogna allora presentargli concrete esigenze di carattere morale ed insegnargli la coerenza e la fermezza nel tendere alla realizzazione dei fini da lui stesso propostisi. Si deve rendersi conto che un simile modello educativo sta in evidente contrapposizione con la cosiddetta spontaneità, comunemente promosssa nella cultura contemporanea e con la glorificazione della libertà non limitata da niente, con rifiuto da parte sua, della gerarchia degli obiettivi valori morali, con il relativismo morale da essa proclamato e con la glorificazione di uno stile di vita edonistico. S. Giovanni Paolo II, accompagnando con fedeltà i giovani del mondo intero nelle vie della loro vita, nell’incontro con la gioventù del 1983 a Częstochowa, disse: „Dovete esigere da voi stessi, anche quando gli altri non esigono da voi”. Queste parole dovrebbero costituire un’indicazione per tutti coloro a cui è affidata la missione di accompagnare i giovani.
Ci rendiamo conto che l’uomo non può vivere di idee puramente astratte. Sperimenta la sua dignità e può svilupparsi solo quando si incontra con una persona, con qualcun altro. Da questo punto di vista quanto continuano ad essere attuali le parole delle Confessioni di sant’Agostino, scritte più di 1600 anni fa: “Ci hai creati (…) orientati verso di Te. E inquieto è il nostro cuore finché non riposa in Te” (Confessioni, I, 1). L’uomo è una creatura religiosa, in modo si può dire naturale protesa verso Dio. La religiosità non è un’aggiunta superflua all’essenza dell’uomo, ma è iscritta nella sua natura. Senza il riferimento a Dio, l’uomo è interiormente menomato, privo del senso della vita e della speranza nella vita dopo la morte. Invece l’incontro con Cristo fa sì che l’uomo trovi in Lui, anzitutto, la risposta più fondamentale ed ultima alla sua domanda sull’essenza della sua umanità. Come disse a Varsavia nel 1979 Giovanni Paolo II, „l’uomo (…) non può essere conosciuto sino in fondo, senza Cristo. O meglio: l’uomo non può conoscersi sino in fondo senza Cristo. Non può capire né chi è né quale sia la sua vera dignità e neppure quale siano la sua vocazione e il suo destino ultimo”. Come seconda cosa, l’incontro con Cristo costituisce la rivelazione più alta dello stesso Dio invisibile ed eterno. „Chi vede Me, vede anche il Padre” – disse Gesù a Filippo (Gv 14, 9), e agli Ebrei riuniti nel tempio di Gerusalemme: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10, 30). Essere con Cristo significa allora testimoniare quotidianamente Dio che è l’Emmanuele, cioè il “Dio con noi”.
Per colui che accompagna il giovane nella scoperta della sua personale grandezza e della sua propria dignità, non esiste nessun compito più nobile ed elevato di questo: accompagnarlo a Cristo; far sì che i suoi occhi, che fino allora erano in qualche modo incapaci di vedere, vedano le prospettive del tutto nuove della quotidianità e dell’eternità; aprirgli davanti la strada della gioia e della felicità autentiche. Proprio questo auguro a tutti coloro per i quali è diventato caro e prezioso il compito di accompagnare i giovani nella loro vita. Esprimo insieme la speranza che le nostre riflessioni e gli incontri personali di qui, durante il Simposio di Barcellona, possano rendere ancora più fruttuosi e benedetti il nostro compito e la vocazione di accompagnare i giovani.
[1] K. Kaźmierska, La mia vita, in: Being and becoming responsible in life. University pastoral care in Europe. Essere e diventare responsabile nella vita. Pastorale universitaria in Europa. Być i stawać się odpowiedzialnymi za życie. Duszpasterstwo akademickie w Europie, Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano 2016, p. 126-127.